NOTA CEI CIRCA L’ISTALLAZIONE DI ANTENNE SU IMMOBILI PARROCCHIALI
prot. n. 1447/00 Roma, 4 dicembre 2000
Agli E.mi Membri della Conferenza Episcopale Italiana
Loro Sedi
Con lettera del 29 aprile 1999, prot. n. 511/99, mi sono permesso di richia-mare
l’attenzione sulla richiesta crescente, rivolta a parroci e rettori di chiese,
con-cernente l’installazione di antenne per la telefonia mobile, allegando
copia di un ar-ticolo pubblicato da Don Carlo Redaelli, Avvocato generale della
Curia di Milano, ne “L’Amico del Clero”. In quella circostanza suggerivo di
trattare la questione con le do-vute cautele, valutando a fronte di eventuali
vantaggi economici, di solito piuttosto modesti, rischi e inconvenienti
connessi; nello stesso tempo lasciavo intendere che era preferibile assumere un
orientamento di rifiuto, piuttosto che mostrare una di-sponibilità illimitata
alla concessione di autorizzazioni.
Negli ultimi mesi il problema si è reso più complesso, anche per
l’intervento di taluni amministratori locali, preoccupati di tutelare
adeguatamente i cittadini dalle fonti di inquinamento ambientale. Nello stesso
tempo diversi Confratelli hanno solle-citato un riesame degli indirizzi
offerti, chiedendo indicazioni aggiornate, perché, al-l’opposto, pressati a
favorire le installazioni.
Avendo richiesto un ulteriore approfondimento della questione al
Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici - Sezione I, trasmetto volentieri
le conclusioni moti-vate dello stesso.
1.
Edifici di
culto e relative pertinenze
Il Comitato ritiene che occorre rifiutare l’installazione di ripetitori
per telefo-nia mobile sugli edifici di culto e sulle relative
pertinenze e che si deve procedere allo smontaggio di quelli eventualmente
collocati; e ciò per due ordini di ragioni.
a) Ragioni connesse con la peculiare condizione
giuridica dell’edificio sacro L’edificio
di culto, vista la sua importanza per la vita dei credenti, è soggetto a una
specifica normativa all’interno dell’ordinamento canonico (cfr. cann. 1205ss.),
finalizzata anche a tutelarne l’esclusività di destinazione. In particolare, il
can. 1210, considerando il fatto che il luogo sacro è destinato “a quanto serve
all’e-sercizio e alla promozione del culto, della pietà, della religione”,
vieta “qualunque co-sa sia aliena alla santità del luogo” e permette
eccezionalmente “altri usi, purché non contrari alla santità del luogo”, solo
con un’autorizzazione da parte dell’Ordinario di carattere temporaneo (“per
modum actus”). La peculiarità della destinazione dell’e-dificio di culto è
riconosciuta anche nell’ordinamento civile italiano, che nell’art. 831,
2°
c. del codice civile stabilisce: “Gli edifici destinati all’esercizio pubblico
del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere
sottratti alla loro de-stinazione neppure per effetto di alienazione, fino a
che la destinazione stessa non sia cessata in conformità alle leggi che li
riguardano [quelle concordatarie e canoni-che]”. Un utilizzo, sia pure
parziale, ma permanente dell’edificio di culto per scopi alieni dalla sua
destinazione non solo sarebbe contrario alla normativa canonica, ma potrebbe
mettere in discussione la permanenza della tutela speciale civile. Tra
l’al-tro, in un contesto sociale che sarà sempre più multiculturale e
multireligioso, la com-promissione dell’univocità e visibilità dei segni
cristiani potrebbe risultare poco pru-dente.
L’installazione di antenne per la telefonia mobile dietro percezione di
com-penso in forma continuata e prolungata nel tempo è un’attività produttiva
di reddi-to (si tratta di una locazione). Per tale motivo, oltre al fatto
del venir meno dell’e-sclusività di destinazione, pregiudicherebbe la
generalizzata esenzione fiscale ri-conosciuta all’edificio di culto in
quanto considerato per definizione non produttivo di reddito (cfr. l’art. 33,
D.P.R. 917/86: “Non si considerano produttive di reddito, se non sono
oggetto di locazione, le unità immobiliari destinate
esclusivamente all’eser-cizio del culto …”).
L’edificio
di culto che fosse nello stesso tempo un bene culturale ecclesiastico
(co-me nella gran parte dei casi) deve essere salvaguardato da ogni rischio che
ne pos-sa compromettere l’integrità, che ne possa deturpare l’aspetto,
che ne possa pregiudicare la fruizione.
b) Ragioni di opportunità e convenienza
Lo sviluppo relativamente recente delle antenne per telefonini non
con-sente ancora di avere riscontri sicuri circa l’impatto ambientale
delle irradiazioni magnetiche delle radiofrequenze e circa l’eventuale pregiudizio
per la salute dei cittadini. Merita perciò rispetto l’opinione “garantista”
che, nel dubbio, preferisce eli-minare ogni rischio alla fonte.
L’installazione
di un ripetitore crea certamente una dipendenza, quando non addi-rittura
una servitù, per quanto attiene l’accesso all’immobile a fini di
verifica e di ma-nutenzione dell’impianto.
Pur in
presenza di idonee clausole contrattuali, il più delle volte, alla
scadenza del contratto, è difficile rientrare senza oneri nel libero
possesso dell’immobile.
Queste
motivazioni - a giudizio del Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici -
devo-no essere ritenute prevalenti rispetto ad altre, pur legittime,
aspettative. Pertanto, al fine di salvaguardare una certa uniformità di
indirizzo, si invitano gli Ordinari dio-cesani a voler dare disposizioni
pertinenti ai parroci e ai rettori di chiesa nel senso prospettato e a vigilare
sulla loro esecuzione.
2. Altri
immobili di proprietà di enti ecclesiastici
Quanto all’installazione su altri immobili di proprietà di enti
ecclesiastici va innanzitutto segnalata l’opportunità di evitare concessioni in
relazione a quelli desti-nati al prolungato soggiorno di categorie “a rischio”,
come i bambini e gli anziani (può
110
essere
il caso degli edifici scolastici o dei fabbricati destinati a casa di riposo,
ecc.). L’installazione su immobili di altro tipo può essere consentita, dopo
aver valutato le ragioni di opportunità e di convenienza e attenendosi in ogni
caso ai se-
guenti criteri.
a) L’installazione di antenne per telefonia mobile
si configura come con-tratto di locazione; in quanto atto di straordinaria
amministrazione, ai sensi del can. 1297, della delibera della C.E.I. n. 38, c.
1 e dell’art. 60 dell’Istruzione in materia am-ministrativa, esso deve
essere autorizzato, ai fini della validità, con licenza scritta dell’Ordinario
diocesano.
b) Il gestore di telefonia cellulare si deve
impegnare a redigere a propria cura e a proprie spese un progetto per
l’installazione degli impianti e a inoltrare alle autorità competenti
(amministrazione sanitaria, soprintendenza per i beni culturali e ambientali,
uffici preposti alla tutela ambientale) le istanze per ottenere le
autorizza-zioni necessarie alla realizzazione del progetto (a proposito di tali
autorizzazioni si vedano le recenti pronunce giurisprudenziali che si riportano
in allegato).
c) Il contratto potrà essere stipulato solo dopo
che saranno concesse le prescritte autorizzazioni civili, di cui alla lett. b),
e dopo aver ottenuto la licenza ca-nonica, di cui alla lett. a).
Al fine di
non impegnare per un tempo troppo prolungato la disponibilità dell’immo-bile il
contratto di locazione dovrebbe avere una durata massima di 5 o di 7 anni,
an-che se l’ente proprietario potrà rinunciare alla facoltà di disdire il
contratto alla prima scadenza, se ciò fosse richiesto dal gestore come
condizione di salvaguardia per l’investimento effettuato.
Il
contratto deve contenere la clausola che nell’esecuzione delle opere necessarie
per la realizzazione dell’impianto saranno adottate tutte le misure idonee a
salva-guardare le caratteristiche originarie della proprietà dell’ente e che in
ogni caso il ge-store, alla scadenza del contratto, è tenuto al ripristino
degli spazi occupati secondo la sistemazione originale.
d) Se l’installazione deve essere effettuata su un
terreno è necessario ve-rificarne preventivamente la destinazione urbanistica.
Se si tratta
di un terreno edificabile, o che in futuro potrebbe essere dichiarato
edifi-cabile a motivo della sua collocazione, bisogna sconsigliarne la
locazione in quanto il canone che si può acquisire è certamente inferiore al
guadagno che si potrà rica-vare dalla vendita eventuale del terreno privo di
vincoli contrattuali, cioè liberamen-te e immediatamente commerciabile.
Nella
speranza di aver offerto orientamenti e indicazioni utili per una adeguata
solu-zione dei casi ancora pendenti, mi valgo volentieri della circostanza per
porgere un saluto fraterno
† Ennio
Antonelli
Segretario
Generale
111
Messaggio della Presidenza della CEI per la 95ª Giornata per l’Università Cattolica del Sacro Cuore
Domenica, 5 maggio 2019 - “Passione talento
impegno. Cercando il mio posto nel mondo”
“Voi giovani dovete combattere per il vostro spazio oggi, perché la vita è oggi. Nessuno ti può promettere un giorno del domani: la tua vita è oggi, il tuo metterti in gioco è oggi, il tuo spazio è oggi. Come stai rispondendo a questo?”. Sono le parole con cui, nel corso della Messa conclusiva della Giornata Mondiale della Gioventù (Panama, 27 gennaio 2019), Papa Francesco esortava i giovani a non vivere di aspettative future, a non lasciarsi ingannare da chi vuole uccidere i loro sogni, a non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà piccole e grandi che accompagnano la loro crescita. Ai giovani appartiene il futuro ma solo in quanto sanno essere protagonisti del presente e sanno plasmare nell’oggi, con tenacia e coraggio, la loro personalità.
In una società che tende a contrapporre le generazioni più che a farle dialogare, che scarica sui giovani il fardello più pesante di incertezza e precarietà, che soffoca più che promuovere il loro entusiasmo e la loro generosità, per tanti giovani appare un’impresa quasi impossibile scoprire e vivere la vocazione che portano nel loro cuore. Non sono pochi quei giovani che fanno fatica a fare discernimento e sono indotti a pensare che non ci sia posto per loro in questo mondo o che perlomeno non potranno mai realizzare ciò che sognano e desiderano. Soffocare i sogni e rubare la speranza, come ricorda spesso papa Francesco, è il risvolto più inquietante della miopia con cui l’odierna società guarda ai giovani.
Ma nelle nuove generazioni il desiderio di realizzarsi e la ricerca del proprio posto nel mondo costituiscono una spinta in grado di superare ogni ostacolo. Se trovano riferimenti positivi e sostegni efficaci, nonostante le innumerevoli difficoltà, non si perdono d’animo e non si arrendono. Sono capaci di slanci formidabili e sanno spendersi con incredibile generosità. Per questo il più grande aiuto che le famiglie, la società e la Chiesa possono offrire, è un autentico e qualificato accompagnamento che sappia garantire una formazione integrale della persona e lo sviluppo di competenze adeguate per affrontare la complessità del tempo presente.
Non è un caso che dal documento conclusivo del Sinodo dei Vescovi dedicato ai giovani emerga “una particolare insistenza sul compito decisivo e insostituibile della formazione professionale, della scuola e dell’università”. In questo contesto si inseriscono con il loro peculiare servizio le istituzioni educative cattoliche. “Esse sono chiamate - si legge ancora nel testo - a proporre un modello di formazione che sia capace di far dialogare la fede con le domande del mondo contemporaneo, con le diverse prospettive antropologiche, con le sfide della scienza e della tecnica, con i cambiamenti del costume sociale e con l’impegno per la giustizia” (n. 158).
Fin dalla sua nascita l’Università Cattolica del Sacro Cuore coltiva questo obiettivo e si adopera, con sapienza e determinazione, per essere all’altezza delle sfide che in ogni epoca, e non meno in quella presente, assumono tratti peculiari e inediti. Un tale impegno appare oggi ancor più necessario e urgente per accogliere la crescente domanda che emerge dai giovani e dalle loro famiglie, alla ricerca di soggetti e luoghi in grado di garantire una formazione di alto profilo scientifico, culturale e spirituale. Proprio per questo, come indica ancora il Sinodo, in tali ambienti va riservata un’attenzione particolare “alla promozione della creatività giovanile nei campi della scienza e dell’arte, della poesia e della letteratura, della musica e dello sport, del digitale e dei media, ecc. In tal modo i giovani potranno scoprire i loro talenti e metterli poi a disposizione della società per il bene di tutti” (Ibid. n. 158).
Ci sono sfide epocali che solo generazioni rinnovate nella sensibilità, nelle competenze, nelle responsabilità etiche e nella passione verso il bene comune potranno affrontare: dall’uso delle tecnologie più avanzate nel campo della robotica alle grandi mutazioni ambientali che minacciano la casa comune, dai nuovi orizzonti che si aprono nell’ambito delle neuroscienze alle profonde trasformazioni indotte dalla comunicazione digitale in ogni ambito del vivere umano, dai processi incompiuti legati alla globalizzazione, non privi di ambiguità e incertezze, alla ricerca di nuove modalità per gestire gli organismi internazionali preposti al governo dei rapporti internazionali. Si tratta di questioni complesse che richiedono passione, talento e impegno.
La Chiesa di Dio che in Italia è consapevole che l’Università Cattolica del Sacro Cuore costituisce una grande risorsa sia per il suo contributo nella formazione delle nuove generazioni sia per la sua presenza culturale nello scenario nazionale e internazionale. Per questo conserva grata memoria per l’opera dei fondatori, incoraggia l’impegno saggio e qualificato che anche in questa stagione è contrassegnato da segnali positivi di crescita, augura che, grazie a scelte oculate e lungimiranti, possa consolidare la sua peculiare missione nella società e nella Chiesa. A rendere la comunità ecclesiale ancora più consapevole che l’Ateneo dei cattolici italiani rappresenta realmente “un grande investimento strategico per il bene dei giovani e della Chiesa intera” (Ibid. n. 159) potrà contribuire la riflessione sul tema “Passione talento impegno. Cercando il mio posto nel mondo” scelto per la 95ª Giornata per l’Università Cattolica del Sacro Cuore che si celebra domenica 5 maggio 2019.
Invitiamo tutte le comunità a fare di questa Giornata una concreta occasione per pregare e riflettere, anche alla luce del recente Sinodo dei Vescovi e della GMG di Panama, sull’impegno formativo della Chiesa e sul contributo prezioso e altamente qualificato che offre da quasi un secolo l’istituzione accademica fondata dal P. Agostino Gemelli. Affidiamo a Maria, sede della sapienza, la vita e la missione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore perché possa essere sempre più un faro nel cammino delle nuove generazioni, nella ricerca sapiente della verità e nella costruzione del bene comune.
Roma, 28 gennaio 2019
Memoria di San Tommaso d’Aquino
Messaggio del Vescovo S. E. Mons Leonardo Bonanno per la Quaresima 2019
Con
l’austero rito delle Ceneri, che la Chiesa continua ad imporre sul capo dei
suoi figli chiamandoli a conversione, è iniziato mercoledì il tempo
quaresimale, tempo di prova della nostra fede, che dovrà nutrirsi di più
intensa preghiera, accompagnata da spirito penitenziale e da feconda carità.
Il messaggio cristiano che si riassume nel binomio: “Convertiti e credi al Vangelo” è sempre lo stesso; mentre a noi, figli di questo tempo, viene chiesto di verificare quali nuove risposte esso è capace di suscitare nel nostro animo.
Il Signore continua a dirci: “Io non voglio la morte del peccatore ma che si converta e viva”. (Ez. 18,23).
E ciò in virtù della dignità dell’essere stati battezzati nel nome della Trinità, avendo ricevuto la filiazione divina, condotti dallo Spirito di Dio nei sentieri, spesso tortuosi, della vita, per portare la buona novella del Signore Gesù. Sorprende che quello stesso Spirito, ricevuto con il battesimo da Giovanni, possa condurre Gesù nel deserto, dove avviene il confronto con Satana.
Nemmeno il figlio di Dio cioè è sottratto alla prova (immaginiamo noi!) al contrario per l’uomo l’esistenza è costantemente messa alla prova.
Satana in definitiva suggerisce al Signore di percorrere una via messianica conforme alle attese popolari perché sia accettato come Messia.
Da fonti storiche del Nuovo Testamento sappiamo che numerosi fanatici sobillavano il popolo invitandolo a recarsi nel deserto perché Dio avrebbe ripetuto il prodigio della manna ed altri ancora!
Dal brano evangelico di Luca, che riascolteremo la prossima domenica (Prima di Quaresima) sappiamo che non dobbiamo conformarci nemmeno noi alle attese del popolo per essere bene accetti, ma attenersi alla parola di Dio, che sazia più del pane.
La potenza di quella Parola ci è donata per amare e servire e non per avere benessere e potere, onde farsi valere.
Come Gesù ha affrontato il demonio con la stessa arma di Adamo, la fede nella Parola Padre, anche se Gesù sarà ancora tentato dai suoi discepoli, da Pietro e dagli altri. Così tentazioni, dubbi, incertezze saranno per i cristiani di sempre, chiamati ad “indossare - secondo Paolo - le armi della luce”.
Sarà sorprendente notare come, a conclusione del racconto Lucano, il demonio si allontanò da Gesù «per ritornare nel tempo fissato».
La prova infatti si riproporrà nella vita di Gesù, così come in noi, opera dello stesso demonio. Le tentazioni non si possono evitare, si attraversano e rappresentano il terreno accidentato lungo il quale la nostra fede è chiamata a maturare e a dare frutto.
Nei giorni scorsi una delegazione diocesana formata da alcuni componenti dell’Associazione San Benedetto Abate con sede a Cetraro, di cui è responsabile don Ennio Stamile, si è recata nella Diocesi di Porto Novo in Benin dove è stato realizzato un Centro Dialisi all’interno dell’Ospedale, nato oltre trent’anni fa per la generosità dei nostri fedeli.
E’ un ulteriore segno della nostra Chiesa particolare verso quella in terra d’Africa. Quest’ultima iniziativa risulta essere un servizio sanitario di estrema necessità inesistente in tutta la Provincia di Porto Novo e per questo è stata assai apprezzato dal nuovo confratello vescovo mons. Aristide Gonsallo.
Pertanto voglio sperare che i presbiteri e le nostre comunità vivano questo tempo quaresimale in comunione con tutta la Chiesa che prega, si esercita nelle opere di penitenza e nella solidarietà verso i fratelli per affermare il primato della vita secondo lo Spirito e non lasciarsi travolgere dalla mentalità di questo mondo.
† Leonardo Bonanno, Vescovo
Decreto sulle feste religiose di S. E. Mons. Leonardo Bonanno

analogamente alle altre feste che annualmente si celebrano nelle comunità
parrocchiali;
- dovendo rispettare le direttive del Concilio Vaticano II, già in vigore da oltre
mezzo secolo;
- ribadendo altresì la validità di quanto stabilito con Decreto del mio
predecessore N°45 dell’8/5/2000 e con mio Decreto n. 74/2013/D del 13/12/2013,
Pastorali Parrocchiali (CPP), dei quali si presume facciano parte persone che siano
impegnate negli ambiti: evangelizzazione, liturgia, carità. Essi subentrano ai
Comitati Festa, che sono abrogati.
2. Ai membri di detti Consigli possono essere ammessi, volta per volta, alcuni soggetti
di provata moralità e fede cattolica, con competenza nei diversi settori organizzativi
dei festeggiamenti.
3. Non possono assumere incarichi nella preparazione e nella gestione delle feste
persone che facciano parte di aggregazioni laicali o consorterie, che non siano in
comunione con la Chiesa Cattolica, alcune assai note.
4. Nella preparazione delle feste si prediligano incontri spirituali e di catechesi (triduo,
settenario, novenario) a favore della comunità e delle diverse categorie presenti nel
territorio.
5. Siano possibilmente invitati un presbitero o un religioso esterni alla comunità per
offrire ai fedeli la possibilità delle confessioni.
6. Le processioni siano dignitose, non lunghe (non si superino le due ore),
accompagnate da preghiere e canti con mezzi di diffusione adeguata e nel corso
delle processioni non si raccolgono offerte.
7. Le offerte invece potranno essere liberamente date in chiesa o anche alle persone
indicate dal parroco, il cui elenco viene trasmesso alle autorità pubbliche. La
somma viene depositata sul C/C della Parrocchia, amministrata dal Consiglio per gli
necessità di culto, di pastorale e di carità.
8. Il parroco che è il legale rappresentate della parrocchia, curi le autorizzazioni
richieste dalle autorità municipali, di polizia e della SIAE per le manifestazioni
civili:(fuochi, luminarie, cantanti, ecc…) che dovranno essere contenute nei costi,
con sobrietà e nel rispetto delle persone indigenti.
9. Altre iniziative potranno essere programmate dai singoli CCP in occasioni delle
feste purché in sintonia con quanto sopra stabilito.
Il presente Decreto entra in vigore dal 1° aprile 2018 (Pasqua di Resurrezione) e,
per consentire una sua graduale applicazione, è valido, “ad experimentum”, per un
triennio.
Vescovo
Can. Antonio Fasano
Cancelliere Vescovile
LA SPIRITUALITÀ PRESBITERALE SECONDO PAPA FRANCESCO
Firenze, 10 marzo 2015
Introduzione
– Il presbitero discepolo, pastore e profeta
Sin
dall’omelia pronunciata in occasione della Sua prima Messa Crismale come
Vescovo di Roma, il 28 marzo 2013, in San Pietro, Papa Francesco ha dedicato
una speciale attenzione ai sacerdoti, alla loro vita e al loro ministero,
incitandoli a viverlo in pienezza, seguendo e imitando Cristo, Buon Pastore. In
quella circostanza, Papa Francesco ha ricordato l’olio col quale sono stati
unti Aronne ed i sacerdoti di Israele, che è versato su di loro perché vadano a
servire il popolo, lo raggiungano, dovunque si trovi. Così anche i presbiteri –
ha ricordato il Santo Padre – sono invitati a ricordare che la loro unzione è «per i poveri, per i prigionieri, per i
malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per
profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché
l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro» (Omelia, 28 marzo 2013).
Con questa immagine forte ed efficace, Papa Francesco ha richiamato la natura del sacerdozio come dono fatto da Dio ad alcuni uomini, per essere donato a tutti gli uomini, attraverso le naturali dinamiche missionarie della fede. Non si diventa sacerdoti per “amministrare” o per “gestire”, né per un tornaconto personale, bensì per dispensare la vita soprannaturale, che viene da Dio solo; ecco la ricchezza della vocazione sacerdotale. Il sacerdote custodisce i fedeli che gli sono affidati, li mantiene in salute, ma non si stanca di uscire a cercare le altre pecore, quelle che per le più diverse ragioni si sono allontanate.
Tra i vari
possibili approcci al tema che mi è stato affidato, desidero raccontare la
visione della spiritualità presbiterale secondo Papa Francesco, facendo
riferimento a tre dimensioni costitutive, che riguardano ogni presbitero,
chiamato a essere permanentemente discepolo, pastore e profeta; esse sono unite
l’una all’altra, e, in certo modo, si sostengono e si alimentano vicendevolmente.
I – Discepolo.
Nel suo discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero, il 3 ottobre 2014, parlando della formazione, Papa Francesco ha ricordato che essa «è un’esperienza discepolare, che avvicina a Cristo e permette di conformarsi sempre più a Lui. Proprio per questo, essa non può essere un compito a termine, perché i sacerdoti non smettono mai di essere discepoli di Gesù, di seguirlo… Quindi, la formazione in quanto discepolato accompagna tutta la vita del ministro ordinato e riguarda integralmente la sua persona, intellettualmente, umanamente e spiritualmente».
Sullo stesso
tema è ritornato nel Messaggio all’Assemblea
Generale della Conferenza Episcopale Italiana, l’8 novembre 2014, affermando
chiaramente che «la formazione di
cui parliamo è un’esperienza di discepolato permanente, che avvicina a Cristo e
permette di conformarsi sempre più a Lui».
Alla domanda
“chi è il presbitero?” Papa Francesco risponde innanzitutto dicendo che è e
rimane sempre un discepolo del Signore. Si tratta di un’affermazione solo
apparentemente semplice, che porta con sé conseguenze importanti per la vita
dei presbiteri e per il loro ministero. Un presbitero che si sente discepolo
infatti non smetterà di prendersi cura del suo rapporto personale con l’unico
Maestro, non si sentirà “arrivato”, con al massimo il compito di “mantenere” il
livello spirituale raggiunto.
Un sacerdote
che avesse questa immagine di sé, come il Santo Padre ha ricordato nel suo
discorso per gli auguri natalizi alla Curia Romana – ma utile per tutta la
Chiesa (22 dicembre 2014) – facilmente si “ammalerebbe” «dell’“alzheimer spirituale”: ossia la dimenticanza della propria storia
di salvezza, della storia personale con il Signore, del «primo amore» (Ap 2,4).
Si tratta di un declino progressivo delle facoltà spirituali che in un più o
meno lungo intervallo di tempo causa gravi handicap alla persona, facendola
diventare incapace di svolgere alcuna attività autonoma, vivendo uno stato di
assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie. Lo vediamo in coloro
che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore; in coloro che non
hanno il senso “deuteronomico” della vita; in coloro che dipendono
completamente dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie; in
coloro che costruiscono intorno a sé muri e abitudini diventando, sempre di
più, schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani».
È un buon
esame particolare di coscienza questo, valido per tutti noi sacerdoti: mi sento
e sono un discepolo del Signore? O sono solo un suo “funzionario”? Lontano da
ogni retorica, mi occupo anche di Dio, della persona di Dio e del mio rapporto
con lui, o semplicemente faccio cose in suo nome?
La vocazione
presbiterale è una chiamata permanente da parte di Dio, esattamente come quella
che Gesù ha rivolto agli apostoli; c’è il momento del primo, grande “sì”,
quello che induce a scegliere di seguire Gesù nella via del ministero ordinato,
ma poi viene la necessità dei tanti “sì” quotidiani, a cui siamo chiamati per
continuare il cammino. Il “sì” alla preghiera personale e alla Liturgia delle
Ore, il “sì” a una celebrazione della S.Messa che sia curata e interiormente preparata,
mai banalizzata o ridotta a mero rito, il “sì” alla lettura della Parola di
Dio, che è Parola viva e sempre nuova, il “sì” al sacramento della
riconciliazione, da amministrare agli altri o da ricevere per sé… L’elenco
potrebbe continuare a lungo, perché tanti momenti e occasioni della vita
quotidiana mettono i presbiteri di fronte a una nuova, piccola o grande,
chiamata del Signore.
Il
presbitero-discepolo ricorda di avere molto in comune con i fedeli che gli sono
affidati, sa di essere con loro in cammino sulla via tracciata dall’unico
Maestro; permettetemi due immagini tratte dal mondo dello sport. Avete presente
le scene di qualche maratona, in cui gli atleti marciano e dal bordo della
strada ogni tanto qualche spettatore offre loro acqua, cibo o altri strumenti
di ristoro per sostenerli nella corsa? Ecco, il rapporto tra il presbitero e i
fedeli non può essere questo, egli non sta a dispensare “doni” agli altri, ma restando
personalmente fermo. Ricordate la famosa foto di Bartali e Coppi che si passano
la borraccia? Questo è il modo in cui il presbitero-discepolo porta ai fedeli i
doni del Signore, facendo la loro stessa strada e, a volte, la loro stessa
fatica, coinvolto nella loro vita, non spettatore esterno.
Il
presbitero-discepolo ha ricevuto anche la vocazione al celibato, che lo
distingue dalla maggior parte dei fedeli e che, a sua volta, richiede di essere
custodita per portare appieno i suoi frutti personali e ministeriali. La
possiamo coltivare dentro quegli spazi di solitudine e di perseverante capacità
di stare alla presenza del Signore nel raccoglimento.
Intorno a noi, infatti, c’è tanto movimento e chiasso, tanto parlare, di persone, di giornali, di radio e televisione, di Internet…. Di tanto in tanto, con misura e disciplina sacerdotale, il presbitero-discepolo è capace di dire: “…io devo prendermi un po' di silenzio per la mia anima; mi stacco da voi per unirmi al mio Dio», come disse Papa Luciani, a me particolarmente caro, nel suo discorso al Clero romano (7 settembre 1978).
L’essere
celibi è dunque una vocazione speciale da parte del Signore, ma non deve
portare il presbitero a diventare un “solitario” o, peggio, un
“individualista”. «La fraternità dei discepoli, quella che esprime l’unità dei cuori, è
parte integrante della chiamata che avete ricevuto», ha ricordato Papa
Francesco ai seminaristi francesi (Messaggio ai seminaristi francesi in
occasione del loro raduno presso il santuario mariano di Lourdes, 8-10 novembre
2014), perché «il ministero presbiterale
non può in nessun caso essere individuale, e ancor meno individualista» .
Il Signore ha
chiamato ciascuno per nome, singolarmente, ma per costituire una sola comunità,
per camminare insieme verso di lui. La vocazione al celibato, pertanto, non può
non permettere ai presbiteri, nell’equilibrio e nella disciplina degli affetti,
di vivere e di sviluppare nel quotidiano ministero una serie di relazioni: con
il Signore, con i confratelli e con i fedeli, e tra questi con gli amici e con
la famiglia; esse sono come le tre gambe di un tavolino che si bilanciano a
vicenda, se adeguatamente coltivate, e giovano all’equilibrio personale e
spirituale, nonché all’efficacia ministeriale.
In questa
“famiglia sacerdotale”, in cui la fraternità tra i presbiteri è accompagnata e
favorita dalla paternità del Vescovo, la spiritualità diocesana è il comune
denominatore, che modella e unisce tutti i sacerdoti posti al servizio di una
determinata Chiesa particolare.
La definizione
dell’essenza e delle coordinate di tale spiritualità è il risultato di un
sapiente equilibrio tra la vita pastorale (caratterizzata dalle attività, dal
prodigarsi con generosità e spirito di sacrificio per il bene dei fratelli) e
la vita spirituale (che esige raccoglimento, intimità con Cristo, disciplina e
fedeltà nella preghiera, come condizioni irrinunciabili per salvaguardare la
propria identità sacerdotale).
Anche in
quella sacerdotale, come in ogni famiglia, i membri hanno posizioni e tratti
differenti, tutti in funzione dell’unità e del buon funzionamento della
famiglia stessa. Allora, proprio perché discepolo del Signore, il presbitero è
obbediente al Signore attraverso la Chiesa e il Vescovo. Questo consente al
presbitero di essere un membro vivo e attivo del corpo ecclesiale e lo preserva
dal sentirsi un “libero professionista”, che agisce autonomamente,
comportandosi in modo del tutto autoreferenziale, magari con la superba pretesa
di vedere sempre più lontano degli altri.
Papa Francesco ha chiamato questa situazione «la malattia del cattivo coordinamento: quando le membra perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di squadra. Quando il piede dice al braccio: “non ho bisogno di te”, o la mano alla testa: “comando io”, causando così disagio e scandalo» (Discorso per gli auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
In sintesi, a
conclusione di questa prima riflessione, potrei dire che la fraternità è l’anima
del discepolato; il presbitero è in cammino dietro a Gesù, cioè sta alla sua
scuola e resta nella sua amicizia per tutta la vita, e in tale cammino non è
solo, ma accompagnato dai fedeli e dai confratelli sacerdoti, dai quali mai si
deve separare.
II – Pastore.
La
spiritualità presbiterale comporta anche un altro tratto caratteristico, assai
presente nelle riflessioni e nelle esortazioni di Papa Francesco: l’essere
pastore, l’immagine che maggiormente caratterizza i presbiteri, anche nella
comprensione della gente.
La vigilanza
del discepolo sulla vocazione ricevuta è la garanzia che il pastore non cessi
di essere tale, cedendo ad alcune permanenti tentazioni e forme di “deriva
ministeriale”; infatti, ha ammonito Papa Francesco, «la mancata vigilanza rende tiepido il Pastore; lo fa distratto,
dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera,
la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce,
trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé,
dell'organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio»
(Omelia 23 maggio 2103, S. Messa con i Vescovi della Conferenza Episcopale
Italiana). Insomma, chi non è un discepolo innamorato e fedele assai
difficilmente potrà essere un buon pastore.
Nella
meditazione quotidiana a Santa Marta, in occasione della Solennità del Sacro
Cuore (7 giugno 2013), Papa Francesco si è posto una domanda al riguardo: «come fa il pastore il Signore?», perché
modello di ogni presbitero è ovviamente Cristo, il “Buon Pastore” per
eccellenza. Secondo il Santo Padre, quindi, due tratti caratterizzano in
special modo l’essere pastore, la vicinanza al popolo e la tenerezza per esso;
queste infatti sono «le due maniere
dell’amore del Signore, che si fa vicino e dà tutto il suo amore anche nelle
cose più piccole, con tenerezza. Tuttavia si tratta di un amore forte. Perché
vicinanza e tenerezza ci fanno vedere la forza dell’amore di Dio».
II.a
– La vicinanza del pastore.
Gesù ha
affermato di “conoscere le sue pecore” (Gv 10,14) e, nella summenzionata meditazione
del 7 giugno 2013, il Santo Padre ha richiamato proprio «quel conoscerle a una a una, con il loro nome. Così ci conosce Dio: non
ci conosce in gruppo, ma uno a uno. Perché l’amore non è un amore astratto, o
generale per tutti; è un amore per ognuno. E così ci ama Dio». Così, noi
possiamo incontrare «un Dio che si fa
vicino per amore e cammina con il suo popolo. E questo camminare arriva a un
punto inimmaginabile: mai si potrebbe pensare che lo stesso Signore si fa uno
di noi e cammina con noi, e rimane con noi, rimane nella sua Chiesa, rimane
nell’eucaristia, rimane nella sua parola, rimane nei poveri e rimane con noi
camminando. Questa è la vicinanza. Il pastore vicino al suo gregge, alle sue
pecorelle che conosce una per una».
La vicinanza
del Signore al suo popolo e, per conseguenza, quella che è richiesta a un
presbitero, è un farsi partecipe della sua storia concreta, della condizioni
reali in cui si trova; il Signore è vicino qui e ora, così come un presbitero è
chiamato a essere vicino a una porzione concreta di popolo di Dio, quella che
gli è affidata in ragione del suo specifico incarico.
Tale vicinanza
può perciò configurarsi diversamente quanto al compito assegnato al sacerdote –
parroco, professore, direttore della Caritas, officiale di curia, canonico penitenziere,
e così via – tuttavia, un buon pastore è solo colui che guida le persone che
gli sono affidate accompagnandole su una strada che lui stesso sta percorrendo
e che ben conosce, coinvolgendosi con loro.
Secondo la
felice immagine evocata da Papa Francesco (Evangelii
gaudium, n. 31), il pastore «a volte
si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo,
altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice
e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per
aiutare coloro che sono rimasti indietro», ma non starà mai “seduto”,
inerte, additando una via conosciuta solo per sentito dire o personalmente
trascurata da tempo.
Il
presbitero-pastore è chiamato in primo luogo a essere guida per il suo popolo,
a farsi carico della responsabilità di condurre al Signore coloro che,
attraverso la Chiesa, il Signore stesso gli ha affidato; egli si fa carico del
cammino dei suoi fedeli, non con la fredda logica del “manager” che cura gli
affari della sua “azienda”, ma con la premura del padre che riconduce a casa i
suoi figli. Non si tratta quindi di un “potere”, da esercitare con autorità, o
anche con asprezza, ma della custodia amorevole di quel tesoro di Dio, che è
ogni uomo.
Il presbitero altre volte sta in mezzo al suo popolo, lo esorta e lo istruisce, lo consola e lo incoraggia, gli fa sentire la presenza di Dio, in modo particolare attraverso la celebrazione dei sacramenti, la proclamazione della Sua Parola e l’esercizio attivo delle opere di carità che ne conseguono. Il presbitero può contribuire in maniera essenziale a dare forma alla sua comunità, senza ovviamente sostituirsi alla responsabilità di ciascuno dei fedeli. Egli può proporre uno “stile” ecclesiale, un modo concreto di vivere il discepolato, con l’esempio della sua vita, prima ancora che con l’efficacia e la sagacia delle sue parole.
Se sta in mezzo al suo popolo, il presbitero non può nascondersi, per malizia o per pigrizia, ma è dal popolo stesso aiutato a ricordare la sua vocazione e la sua missione, nonché richiamato a viverla in profondità e in pienezza. Se un presbitero dimentica questo, facilmente cadrà nella «malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete. Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15,11-32)» (Discorso per gli auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
Infine, a volte il pastore deve stare dietro al suo gregge, quando le circostanze lo richiedono; non si tratta certo di un fuggire la responsabilità o di disinteresse, anche solo momentaneo, per il popolo. Anzi, a volte si tratta di un interesse specifico, quello per le pecore più lente o più pigre, per quelle malate e smarrite, che non sanno da sole ritrovare la via. In quei casi il presbitero farà come il buon pastore del Vangelo di Luca e non si accontenterà di mantenere e custodire il gregge che gli è rimasto, ma si prodigherà per ricondurre all’ovile anche quelle pecore che al momento ne sono lontane.
Si tratta di quello zelo missionario ed evangelizzatore, che tanto spesso Papa Francesco richiama, con l’esempio personale e anche con le parole, come quando in un’udienza generale (17 settembre 2014) ha ricordato: «Se gli Apostoli fossero rimasti lì nel cenacolo, senza uscire a portare il Vangelo, la Chiesa sarebbe soltanto la Chiesa di quel popolo, di quella città, di quel cenacolo. Ma tutti sono usciti per il mondo, dal momento della nascita della Chiesa, dal momento che è disceso su di loro lo Spirito Santo. E per questo la Chiesa è nata “in uscita”, cioè missionaria».
Ma stare dietro al popolo a volte ha anche una funzione purificatrice per il presbitero, è per lui un incitamento all’ascolto e all’umiltà, per evitare che possa sentirsi unico depositario della volontà di Dio. Anche nell’ascolto del popolo, del sensus fidelium, si dimostra l’animo pastorale di un presbitero, la sua apertura agli altri, con la consapevolezza di essere uno strumento utile, ma non unico, nelle mani di Dio.
È il contrario
di ciò che avviene in chi incorre in un’altra delle malattie spirituali
richiamate all’attenzione della Chiesa da Papa Francesco: si tratta della «malattia
del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile”, trascurando
i necessari e abituali controlli... È la malattia del ricco stolto del
Vangelo che pensava di vivere eternamente (cfr. Lc 12,13-21), e anche di
coloro che si trasformano in padroni e si sentono superiori a tutti e non al
servizio di tutti. Essa deriva spesso dalla patologia del potere, dal
“complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la
propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri,
specialmente dei più deboli e bisognosi» (Discorso per gli auguri natalizi
alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
Tuttavia,
nella visione di Papa Francesco, si tratta di una malattia per la quale
esistono cure specifiche, alle quali poter ricorrere per guarire, ogni volta
che sia necessario: «Un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare a vedere
i nomi di tante persone, delle quale alcuni forse pensavano di essere
immortali, immuni e indispensabili!...L’antidoto a questa epidemia è la grazia
di sentirci peccatori e di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10)» (Discorso per gli
auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
II.b – La
tenerezza del pastore.
Nella già
ricordata meditazione quotidiana a Santa Marta, in occasione della Solennità
del Sacro Cuore (7 giugno 2013), a partire
da un brano del profeta Ezechiele (34,16) – “Andrò in cerca della pecora
perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò
quella malata, avrò cura della grassa e della forte, le pascerò con giustizia e
con tenerezza” – Papa Francesco ha parlato anche del secondo tratto dell’essere
pastore da parte di Dio: «Il Signore ci
ama con tenerezza. Il Signore sa quella bella scienza delle carezze. La
tenerezza di Dio: non ci ama a parole; lui si avvicina e nel suo starci vicini
ci dà il suo amore con tutta la tenerezza possibile».
La tenerezza,
per così dire, è lo stile, la modalità, con cui Dio realizza la sua vicinanza e
che è richiesta anche ai pastori. Essi infatti sono costituiti per prendersi
amorevolmente cura del popolo di Dio, per provare, in senso etimologico,
“compassione”, per le sue vicende; «Questa
“compassione”», ha ricordato Papa Francesco all’Angelus del 9 giugno 2013 «è
l’amore di Dio per l’uomo, è la misericordia, cioè l’atteggiamento di Dio a
contatto con la miseria umana, con la nostra indigenza, la nostra sofferenza,
la nostra angoscia».
Esattamente
come Dio fa sempre e come Gesù ha fatto durante la sua vita terrena, i
presbiteri-pastori sono chiamati a farsi teneramente prossimi agli uomini,
soprattutto alle loro miserie, alle loro sconfitte e alla loro disperazione.
Anche dove il male sembra trionfare, il pastore, libero da calcoli umani e da
opportunismo, si fa prossimo per portare una parola di speranza o un aiuto
materiale, o, altre volte, semplicemente per far sentire con la sua sola
presenza che Dio non abbandona nessuno e non si allontana da nessuno, perché
Egli «ha un cuore misericordioso! E se
gli mostriamo le nostre ferite interiori, i nostri peccati, Egli sempre ci
perdona», come ha ribadito con forza il Santo Padre nel corso del medesimo Angelus (9 giugno 2013).
Questa
compassione è qualcosa di profondo, che coinvolge e crea turbamento, come è
accaduto anche a Gesù di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro, perché «certe realtà della vita si vedono soltanto
con gli occhi puliti dalle lacrime… » e, di fronte ad esse, «la nostra risposta è il silenzio o la parola
che nasce dalle lacrime», come ha ricordato ai giovani delle Filippine Papa
Francesco, profondamente commosso per le vicende dolorose che gli venivano
esposte. L’esempio del Papa ci incoraggia, il suo cuore di pastore aperto alla
tenerezza per chi soffre ci è d’esempio; possiamo perciò sentire rivolte anche
a ciascuno di noi le sue parole: «siate
coraggiosi, non abbiate paura di piangere!» (Sri Lanka, Incontro con i
Giovani, 18 gennaio 2015).
Il
presbitero-pastore è capace di commuoversi, di partecipare interiormente della
vita dei suoi fedeli, non limitandosi a porsi come “benefattore”, che realizza
un’opera buona in maniera asettica, impersonale. Quando un sacerdote si
immedesima con quel che il suo prossimo vive in quel momento, gli diventa
possibile servirlo nella maniera più efficace, annunciandogli il volto di
Cristo di cui ha più bisogno in una relazione veramente umana. “Compatire”
significa avere a cuore la vita e il destino dell’altro, cercando di far
arrivare nella sua, l’amore di Dio per lui, anche prima di annunciargli
esplicitamente il Vangelo.
A ben
pensarci, infatti, lo stesso gesto può avere per chi lo compie e per chi lo
riceve una valenza ben diversa, in base al cuore di colui che lo compie.
Pensiamo all’elemosina: posso dare una moneta in maniera frettolosa, per
liberarmi quanto prima dalla persona importuna che me la chiede; oppure posso
darla a testa bassa, per mettermi in pace la coscienza e non pensare più alle
situazioni di miseria, tanto “ho già dato”; oppure posso accompagnare
l’elemosina almeno con un sorriso, uno sguardo, con un tocco di umanità che
raggiunga non solo la mano tesa del povero, ma anche il suo cuore. Pertanto,
secondo le parole di Papa Francesco (Angelus,
15 febbraio 2015), «Per essere “imitatori
di Cristo” (cfr 1 Cor 11,1) di
fronte a un povero o a un malato, non dobbiamo avere paura di guardarlo negli
occhi e di avvicinarci con tenerezza e compassione, e di toccarlo e di
abbracciarlo».
La tenerezza “produce
anticorpi”, è “terapeutica” non solo per chi la riceve, ma anche per chi la dà,
perché senza di essa «c’è anche la
malattia dell’“impietrimento” mentale e spirituale: ossia di coloro che
posseggono un cuore di pietra e la “testa dura” (cfr At 7,51); di coloro che,
strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si
nascondono sotto le carte diventando “macchine di pratiche” e non “uomini di
Dio” (cfr Eb 3,12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per
piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la
malattia di coloro che perdono “i sentimenti di Gesù” (cfr Fil 2,5) perché il
loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace di amare
incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfr Mt 22,34-40)» (Discorso per
gli auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
III – Profeta.
La terza
dimensione caratterizzante della spiritualità presbiterale secondo Papa
Francesco, a mio modo di vedere, può essere considerata quella “profetica”.
Il profeta
infatti è colui che può parlare a nome di Dio, “leggere” le vicende della
storia con gli occhi di Dio e aiutare gli uomini a farlo. Tale capacità non
deriva al profeta da doni soprannaturali, ma dalla sua intimità con Dio, dal
suo essere entrato pienamente nella logica di Dio e nella vita secondo lo
Spirito.
Per questo,
per il presbitero, l’essere profeta è il naturale esito di un permanente
cammino discepolare, di una ininterrotta sequela del Signore, nonché del suo
essere un pastore secondo il cuore del Signore. Il presbitero-profeta allora,
semplicemente, continuatore della missione di Cristo, parla di Chi conosce,
cioè di Dio, nonché del suo agire nel mondo.
Un simile
parlare è indubbiamente gradito a chi parla “la stessa lingua”, per coloro che
sono discepoli del Signore o che comunque intuiscono la bellezza della vita
secondo il Vangelo; ma per coloro che rifiutano l’annuncio – per calcolo, per
pigrizia, perché soggiogati dalle logiche del mondo – il presbitero-profeta è
fastidioso, molesto e si cerca di liberarsene, tanto che, ha ricordato Papa
Francesco «sempre nella storia della
salvezza, nel tempo di Israele e anche nella Chiesa, i profeti sono stati
perseguitati» (Meditazione a S.Marta, 4 aprile 2014).
Il presbitero
ha necessità di restare intimamente unito a Cristo, per essere un pastore
secondo il suo cuore e un profeta, che parla in suo nome. Niente di eccezionale
o di eroico, non è un compito destinato a “super preti” o a quelli che non
hanno niente da fare quindi possono dedicarsi alla propria cura spirituale.
Errore. La santificazione di un presbitero, il suo poter parlare legittimamente
a nome di Dio, si compie attraverso la cura di quello che ho ricordato in precedenza,
cioè la cura della dimensione discepolare e del cuore pastorale.
La via
attraverso cui un presbitero realizza la sua missione profetica, nella Chiesa e
per la Chiesa, risiede proprio nel suo continuare a essere e ad agire discepolo
e pastore, libero dalla tentazione di diventare un “chierico di Stato”, un
“funzionario”, preoccupato di non perdere il consenso delle persone importanti,
piuttosto che di annunciare al mondo le parole del Vangelo; «il profeta è un uomo che dice: “ma voi avete
sbagliato strada, tornate alla strada di Dio!” Questo è il messaggio di un
profeta. Un messaggio che non fa piacere alle persone che traggono il loro
potere da quella strada sbagliata», ha ammonito papa Francesco (Meditazione
a S.Marta, 4 aprile 2014).
Occorre, insomma,
che i presbiteri siano «uomini che non si
dimentichino di essere stati “tratti dal gregge”, che non si dimentichino
“della propria madre e della propria nonna” (2 Tim 1:5); presbiteri che si
difendano dalla ruggine della “mondanità spirituale”, che costituisce “il più
grande pericolo, la tentazione più perfida, quella che rinasce sempre -
insidiosamente - quando tutte le altre sono state già sconfitte, e riprende
nuovo vigore con le stesse vittorie...”», come scrisse nel 2008 il
Cardinale Bergoglio ai sacerdoti di Buenos Aires (meditazione che il Santo
Padre ha pregato di trasmettere ai sacerdoti di Roma, in vista dell’incontro
con loro, il 16 settembre 2013).
IV – Conclusione
Ho cercato sin
qui di sintetizzare la visione della spiritualità presbiterale secondo Papa
Francesco, cogliendo alcuni dei numerosi spunti che egli continuamente propone,
con la sua predicazione, i suoi discorsi e, soprattutto, con il suo esempio
personale, che è il principale “testo” da consultare per chi vuole comprendere
la sua visione del ministero ordinato.
Tale
spiritualità presbiterale è una proposta “in positivo”, costruttiva, che mira a
liberare i presbiteri dal rischio della corruzione e dell’imborghesimento,
perché il popolo di Dio abbia sempre pastori secondo il cuore di Gesù. Il Santo
Padre infatti continua a mostrare come i sacerdoti siano un dono che Dio fa
alla sua Chiesa e alla società in mezzo alla quale operano come pastori. Da qui
sorgono alcune esigenze, necessarie per far sì che questo dono non vada sprecato,
ma, curato con gioiosa perseveranza, possa portare appieno i suoi frutti.
In sintesi allora, è necessario che ogni un sacerdote continui a sentirsi discepolo in cammino per tutta la vita, a volte bisognoso di riscoprire e rafforzare il suo rapporto col Signore, e, anche, di lasciarsi “guarire”; non a caso Papa Francesco nel suo discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero (3 ottobre 2014), ha ricordato che nel cammino di discepoli «a volte procediamo spediti, altre volte il nostro passo è incerto, ci fermiamo e possiamo anche cadere, ma sempre restando in cammino».
Nel rapporto
con il Signore, il discepolo, chiamato a essere pastore e inviato a
evangelizzare con spirito profetico, viene preservato dal diventare un
“funzionario” del sacro, un “mestierante” della pastorale, magari preparato
nella gestione di eventi e iniziative, ma spiritualmente impoverito, distante
dalla gente e non più capace di contagiare con la gioia del Vangelo.
Obbediente a
Dio attraverso la Chiesa, esigente innanzitutto con sé stesso, per custodire la
vocazione e il ministero, strumento della tenera vicinanza di Dio agli uomini, consapevole
di essere sempre allo stesso tempo pastore e discepolo: così preghiamo che
possa vivere il suo ministero ogni sacerdote oggi, in particolar modo quelli
che servono questa Chiesa fiorentina, gioiosi anche nelle avversità, consci di
essere un dono dell’amore di Dio, fatto alla Chiesa e alla società intera.
“La spiritualità presbiterale secondo Papa Francesco”
Introduzione – Il presbitero discepolo, pastore e profeta
II.a – La vicinanza del pastore.