LA SPIRITUALITÀ PRESBITERALE SECONDO PAPA FRANCESCO
Firenze, 10 marzo 2015
Introduzione
– Il presbitero discepolo, pastore e profeta
Sin
dall’omelia pronunciata in occasione della Sua prima Messa Crismale come
Vescovo di Roma, il 28 marzo 2013, in San Pietro, Papa Francesco ha dedicato
una speciale attenzione ai sacerdoti, alla loro vita e al loro ministero,
incitandoli a viverlo in pienezza, seguendo e imitando Cristo, Buon Pastore. In
quella circostanza, Papa Francesco ha ricordato l’olio col quale sono stati
unti Aronne ed i sacerdoti di Israele, che è versato su di loro perché vadano a
servire il popolo, lo raggiungano, dovunque si trovi. Così anche i presbiteri –
ha ricordato il Santo Padre – sono invitati a ricordare che la loro unzione è «per i poveri, per i prigionieri, per i
malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per
profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché
l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro» (Omelia, 28 marzo 2013).
Con questa immagine forte ed efficace, Papa Francesco ha richiamato la natura del sacerdozio come dono fatto da Dio ad alcuni uomini, per essere donato a tutti gli uomini, attraverso le naturali dinamiche missionarie della fede. Non si diventa sacerdoti per “amministrare” o per “gestire”, né per un tornaconto personale, bensì per dispensare la vita soprannaturale, che viene da Dio solo; ecco la ricchezza della vocazione sacerdotale. Il sacerdote custodisce i fedeli che gli sono affidati, li mantiene in salute, ma non si stanca di uscire a cercare le altre pecore, quelle che per le più diverse ragioni si sono allontanate.
Tra i vari
possibili approcci al tema che mi è stato affidato, desidero raccontare la
visione della spiritualità presbiterale secondo Papa Francesco, facendo
riferimento a tre dimensioni costitutive, che riguardano ogni presbitero,
chiamato a essere permanentemente discepolo, pastore e profeta; esse sono unite
l’una all’altra, e, in certo modo, si sostengono e si alimentano vicendevolmente.
I – Discepolo.
Nel suo discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero, il 3 ottobre 2014, parlando della formazione, Papa Francesco ha ricordato che essa «è un’esperienza discepolare, che avvicina a Cristo e permette di conformarsi sempre più a Lui. Proprio per questo, essa non può essere un compito a termine, perché i sacerdoti non smettono mai di essere discepoli di Gesù, di seguirlo… Quindi, la formazione in quanto discepolato accompagna tutta la vita del ministro ordinato e riguarda integralmente la sua persona, intellettualmente, umanamente e spiritualmente».
Sullo stesso
tema è ritornato nel Messaggio all’Assemblea
Generale della Conferenza Episcopale Italiana, l’8 novembre 2014, affermando
chiaramente che «la formazione di
cui parliamo è un’esperienza di discepolato permanente, che avvicina a Cristo e
permette di conformarsi sempre più a Lui».
Alla domanda
“chi è il presbitero?” Papa Francesco risponde innanzitutto dicendo che è e
rimane sempre un discepolo del Signore. Si tratta di un’affermazione solo
apparentemente semplice, che porta con sé conseguenze importanti per la vita
dei presbiteri e per il loro ministero. Un presbitero che si sente discepolo
infatti non smetterà di prendersi cura del suo rapporto personale con l’unico
Maestro, non si sentirà “arrivato”, con al massimo il compito di “mantenere” il
livello spirituale raggiunto.
Un sacerdote
che avesse questa immagine di sé, come il Santo Padre ha ricordato nel suo
discorso per gli auguri natalizi alla Curia Romana – ma utile per tutta la
Chiesa (22 dicembre 2014) – facilmente si “ammalerebbe” «dell’“alzheimer spirituale”: ossia la dimenticanza della propria storia
di salvezza, della storia personale con il Signore, del «primo amore» (Ap 2,4).
Si tratta di un declino progressivo delle facoltà spirituali che in un più o
meno lungo intervallo di tempo causa gravi handicap alla persona, facendola
diventare incapace di svolgere alcuna attività autonoma, vivendo uno stato di
assoluta dipendenza dalle sue vedute spesso immaginarie. Lo vediamo in coloro
che hanno perso la memoria del loro incontro con il Signore; in coloro che non
hanno il senso “deuteronomico” della vita; in coloro che dipendono
completamente dal loro presente, dalle loro passioni, capricci e manie; in
coloro che costruiscono intorno a sé muri e abitudini diventando, sempre di
più, schiavi degli idoli che hanno scolpito con le loro stesse mani».
È un buon
esame particolare di coscienza questo, valido per tutti noi sacerdoti: mi sento
e sono un discepolo del Signore? O sono solo un suo “funzionario”? Lontano da
ogni retorica, mi occupo anche di Dio, della persona di Dio e del mio rapporto
con lui, o semplicemente faccio cose in suo nome?
La vocazione
presbiterale è una chiamata permanente da parte di Dio, esattamente come quella
che Gesù ha rivolto agli apostoli; c’è il momento del primo, grande “sì”,
quello che induce a scegliere di seguire Gesù nella via del ministero ordinato,
ma poi viene la necessità dei tanti “sì” quotidiani, a cui siamo chiamati per
continuare il cammino. Il “sì” alla preghiera personale e alla Liturgia delle
Ore, il “sì” a una celebrazione della S.Messa che sia curata e interiormente preparata,
mai banalizzata o ridotta a mero rito, il “sì” alla lettura della Parola di
Dio, che è Parola viva e sempre nuova, il “sì” al sacramento della
riconciliazione, da amministrare agli altri o da ricevere per sé… L’elenco
potrebbe continuare a lungo, perché tanti momenti e occasioni della vita
quotidiana mettono i presbiteri di fronte a una nuova, piccola o grande,
chiamata del Signore.
Il
presbitero-discepolo ricorda di avere molto in comune con i fedeli che gli sono
affidati, sa di essere con loro in cammino sulla via tracciata dall’unico
Maestro; permettetemi due immagini tratte dal mondo dello sport. Avete presente
le scene di qualche maratona, in cui gli atleti marciano e dal bordo della
strada ogni tanto qualche spettatore offre loro acqua, cibo o altri strumenti
di ristoro per sostenerli nella corsa? Ecco, il rapporto tra il presbitero e i
fedeli non può essere questo, egli non sta a dispensare “doni” agli altri, ma restando
personalmente fermo. Ricordate la famosa foto di Bartali e Coppi che si passano
la borraccia? Questo è il modo in cui il presbitero-discepolo porta ai fedeli i
doni del Signore, facendo la loro stessa strada e, a volte, la loro stessa
fatica, coinvolto nella loro vita, non spettatore esterno.
Il
presbitero-discepolo ha ricevuto anche la vocazione al celibato, che lo
distingue dalla maggior parte dei fedeli e che, a sua volta, richiede di essere
custodita per portare appieno i suoi frutti personali e ministeriali. La
possiamo coltivare dentro quegli spazi di solitudine e di perseverante capacità
di stare alla presenza del Signore nel raccoglimento.
Intorno a noi, infatti, c’è tanto movimento e chiasso, tanto parlare, di persone, di giornali, di radio e televisione, di Internet…. Di tanto in tanto, con misura e disciplina sacerdotale, il presbitero-discepolo è capace di dire: “…io devo prendermi un po' di silenzio per la mia anima; mi stacco da voi per unirmi al mio Dio», come disse Papa Luciani, a me particolarmente caro, nel suo discorso al Clero romano (7 settembre 1978).
L’essere
celibi è dunque una vocazione speciale da parte del Signore, ma non deve
portare il presbitero a diventare un “solitario” o, peggio, un
“individualista”. «La fraternità dei discepoli, quella che esprime l’unità dei cuori, è
parte integrante della chiamata che avete ricevuto», ha ricordato Papa
Francesco ai seminaristi francesi (Messaggio ai seminaristi francesi in
occasione del loro raduno presso il santuario mariano di Lourdes, 8-10 novembre
2014), perché «il ministero presbiterale
non può in nessun caso essere individuale, e ancor meno individualista» .
Il Signore ha
chiamato ciascuno per nome, singolarmente, ma per costituire una sola comunità,
per camminare insieme verso di lui. La vocazione al celibato, pertanto, non può
non permettere ai presbiteri, nell’equilibrio e nella disciplina degli affetti,
di vivere e di sviluppare nel quotidiano ministero una serie di relazioni: con
il Signore, con i confratelli e con i fedeli, e tra questi con gli amici e con
la famiglia; esse sono come le tre gambe di un tavolino che si bilanciano a
vicenda, se adeguatamente coltivate, e giovano all’equilibrio personale e
spirituale, nonché all’efficacia ministeriale.
In questa
“famiglia sacerdotale”, in cui la fraternità tra i presbiteri è accompagnata e
favorita dalla paternità del Vescovo, la spiritualità diocesana è il comune
denominatore, che modella e unisce tutti i sacerdoti posti al servizio di una
determinata Chiesa particolare.
La definizione
dell’essenza e delle coordinate di tale spiritualità è il risultato di un
sapiente equilibrio tra la vita pastorale (caratterizzata dalle attività, dal
prodigarsi con generosità e spirito di sacrificio per il bene dei fratelli) e
la vita spirituale (che esige raccoglimento, intimità con Cristo, disciplina e
fedeltà nella preghiera, come condizioni irrinunciabili per salvaguardare la
propria identità sacerdotale).
Anche in
quella sacerdotale, come in ogni famiglia, i membri hanno posizioni e tratti
differenti, tutti in funzione dell’unità e del buon funzionamento della
famiglia stessa. Allora, proprio perché discepolo del Signore, il presbitero è
obbediente al Signore attraverso la Chiesa e il Vescovo. Questo consente al
presbitero di essere un membro vivo e attivo del corpo ecclesiale e lo preserva
dal sentirsi un “libero professionista”, che agisce autonomamente,
comportandosi in modo del tutto autoreferenziale, magari con la superba pretesa
di vedere sempre più lontano degli altri.
Papa Francesco ha chiamato questa situazione «la malattia del cattivo coordinamento: quando le membra perdono la comunione tra di loro e il corpo smarrisce la sua armoniosa funzionalità e la sua temperanza, diventando un’orchestra che produce chiasso, perché le sue membra non collaborano e non vivono lo spirito di comunione e di squadra. Quando il piede dice al braccio: “non ho bisogno di te”, o la mano alla testa: “comando io”, causando così disagio e scandalo» (Discorso per gli auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
In sintesi, a
conclusione di questa prima riflessione, potrei dire che la fraternità è l’anima
del discepolato; il presbitero è in cammino dietro a Gesù, cioè sta alla sua
scuola e resta nella sua amicizia per tutta la vita, e in tale cammino non è
solo, ma accompagnato dai fedeli e dai confratelli sacerdoti, dai quali mai si
deve separare.
II – Pastore.
La
spiritualità presbiterale comporta anche un altro tratto caratteristico, assai
presente nelle riflessioni e nelle esortazioni di Papa Francesco: l’essere
pastore, l’immagine che maggiormente caratterizza i presbiteri, anche nella
comprensione della gente.
La vigilanza
del discepolo sulla vocazione ricevuta è la garanzia che il pastore non cessi
di essere tale, cedendo ad alcune permanenti tentazioni e forme di “deriva
ministeriale”; infatti, ha ammonito Papa Francesco, «la mancata vigilanza rende tiepido il Pastore; lo fa distratto,
dimentico e persino insofferente; lo seduce con la prospettiva della carriera,
la lusinga del denaro e i compromessi con lo spirito del mondo; lo impigrisce,
trasformandolo in un funzionario, un chierico di stato preoccupato più di sé,
dell'organizzazione e delle strutture, che del vero bene del Popolo di Dio»
(Omelia 23 maggio 2103, S. Messa con i Vescovi della Conferenza Episcopale
Italiana). Insomma, chi non è un discepolo innamorato e fedele assai
difficilmente potrà essere un buon pastore.
Nella
meditazione quotidiana a Santa Marta, in occasione della Solennità del Sacro
Cuore (7 giugno 2013), Papa Francesco si è posto una domanda al riguardo: «come fa il pastore il Signore?», perché
modello di ogni presbitero è ovviamente Cristo, il “Buon Pastore” per
eccellenza. Secondo il Santo Padre, quindi, due tratti caratterizzano in
special modo l’essere pastore, la vicinanza al popolo e la tenerezza per esso;
queste infatti sono «le due maniere
dell’amore del Signore, che si fa vicino e dà tutto il suo amore anche nelle
cose più piccole, con tenerezza. Tuttavia si tratta di un amore forte. Perché
vicinanza e tenerezza ci fanno vedere la forza dell’amore di Dio».
II.a
– La vicinanza del pastore.
Gesù ha
affermato di “conoscere le sue pecore” (Gv 10,14) e, nella summenzionata meditazione
del 7 giugno 2013, il Santo Padre ha richiamato proprio «quel conoscerle a una a una, con il loro nome. Così ci conosce Dio: non
ci conosce in gruppo, ma uno a uno. Perché l’amore non è un amore astratto, o
generale per tutti; è un amore per ognuno. E così ci ama Dio». Così, noi
possiamo incontrare «un Dio che si fa
vicino per amore e cammina con il suo popolo. E questo camminare arriva a un
punto inimmaginabile: mai si potrebbe pensare che lo stesso Signore si fa uno
di noi e cammina con noi, e rimane con noi, rimane nella sua Chiesa, rimane
nell’eucaristia, rimane nella sua parola, rimane nei poveri e rimane con noi
camminando. Questa è la vicinanza. Il pastore vicino al suo gregge, alle sue
pecorelle che conosce una per una».
La vicinanza
del Signore al suo popolo e, per conseguenza, quella che è richiesta a un
presbitero, è un farsi partecipe della sua storia concreta, della condizioni
reali in cui si trova; il Signore è vicino qui e ora, così come un presbitero è
chiamato a essere vicino a una porzione concreta di popolo di Dio, quella che
gli è affidata in ragione del suo specifico incarico.
Tale vicinanza
può perciò configurarsi diversamente quanto al compito assegnato al sacerdote –
parroco, professore, direttore della Caritas, officiale di curia, canonico penitenziere,
e così via – tuttavia, un buon pastore è solo colui che guida le persone che
gli sono affidate accompagnandole su una strada che lui stesso sta percorrendo
e che ben conosce, coinvolgendosi con loro.
Secondo la
felice immagine evocata da Papa Francesco (Evangelii
gaudium, n. 31), il pastore «a volte
si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo,
altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice
e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo, per
aiutare coloro che sono rimasti indietro», ma non starà mai “seduto”,
inerte, additando una via conosciuta solo per sentito dire o personalmente
trascurata da tempo.
Il
presbitero-pastore è chiamato in primo luogo a essere guida per il suo popolo,
a farsi carico della responsabilità di condurre al Signore coloro che,
attraverso la Chiesa, il Signore stesso gli ha affidato; egli si fa carico del
cammino dei suoi fedeli, non con la fredda logica del “manager” che cura gli
affari della sua “azienda”, ma con la premura del padre che riconduce a casa i
suoi figli. Non si tratta quindi di un “potere”, da esercitare con autorità, o
anche con asprezza, ma della custodia amorevole di quel tesoro di Dio, che è
ogni uomo.
Il presbitero altre volte sta in mezzo al suo popolo, lo esorta e lo istruisce, lo consola e lo incoraggia, gli fa sentire la presenza di Dio, in modo particolare attraverso la celebrazione dei sacramenti, la proclamazione della Sua Parola e l’esercizio attivo delle opere di carità che ne conseguono. Il presbitero può contribuire in maniera essenziale a dare forma alla sua comunità, senza ovviamente sostituirsi alla responsabilità di ciascuno dei fedeli. Egli può proporre uno “stile” ecclesiale, un modo concreto di vivere il discepolato, con l’esempio della sua vita, prima ancora che con l’efficacia e la sagacia delle sue parole.
Se sta in mezzo al suo popolo, il presbitero non può nascondersi, per malizia o per pigrizia, ma è dal popolo stesso aiutato a ricordare la sua vocazione e la sua missione, nonché richiamato a viverla in profondità e in pienezza. Se un presbitero dimentica questo, facilmente cadrà nella «malattia della schizofrenia esistenziale. E’ la malattia di coloro che vivono una doppia vita, frutto dell’ipocrisia tipica del mediocre e del progressivo vuoto spirituale che lauree o titoli accademici non possono colmare. Una malattia che colpisce spesso coloro che, abbandonando il sevizio pastorale, si limitano alle faccende burocratiche, perdendo così il contatto con la realtà, con le persone concrete. Creano così un loro mondo parallelo, dove mettono da parte tutto ciò che insegnano severamente agli altri e iniziano a vivere una vita nascosta e sovente dissoluta. La conversione è alquanto urgente e indispensabile per questa gravissima malattia (cfr Lc 15,11-32)» (Discorso per gli auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
Infine, a volte il pastore deve stare dietro al suo gregge, quando le circostanze lo richiedono; non si tratta certo di un fuggire la responsabilità o di disinteresse, anche solo momentaneo, per il popolo. Anzi, a volte si tratta di un interesse specifico, quello per le pecore più lente o più pigre, per quelle malate e smarrite, che non sanno da sole ritrovare la via. In quei casi il presbitero farà come il buon pastore del Vangelo di Luca e non si accontenterà di mantenere e custodire il gregge che gli è rimasto, ma si prodigherà per ricondurre all’ovile anche quelle pecore che al momento ne sono lontane.
Si tratta di quello zelo missionario ed evangelizzatore, che tanto spesso Papa Francesco richiama, con l’esempio personale e anche con le parole, come quando in un’udienza generale (17 settembre 2014) ha ricordato: «Se gli Apostoli fossero rimasti lì nel cenacolo, senza uscire a portare il Vangelo, la Chiesa sarebbe soltanto la Chiesa di quel popolo, di quella città, di quel cenacolo. Ma tutti sono usciti per il mondo, dal momento della nascita della Chiesa, dal momento che è disceso su di loro lo Spirito Santo. E per questo la Chiesa è nata “in uscita”, cioè missionaria».
Ma stare dietro al popolo a volte ha anche una funzione purificatrice per il presbitero, è per lui un incitamento all’ascolto e all’umiltà, per evitare che possa sentirsi unico depositario della volontà di Dio. Anche nell’ascolto del popolo, del sensus fidelium, si dimostra l’animo pastorale di un presbitero, la sua apertura agli altri, con la consapevolezza di essere uno strumento utile, ma non unico, nelle mani di Dio.
È il contrario
di ciò che avviene in chi incorre in un’altra delle malattie spirituali
richiamate all’attenzione della Chiesa da Papa Francesco: si tratta della «malattia
del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile”, trascurando
i necessari e abituali controlli... È la malattia del ricco stolto del
Vangelo che pensava di vivere eternamente (cfr. Lc 12,13-21), e anche di
coloro che si trasformano in padroni e si sentono superiori a tutti e non al
servizio di tutti. Essa deriva spesso dalla patologia del potere, dal
“complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la
propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri,
specialmente dei più deboli e bisognosi» (Discorso per gli auguri natalizi
alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
Tuttavia,
nella visione di Papa Francesco, si tratta di una malattia per la quale
esistono cure specifiche, alle quali poter ricorrere per guarire, ogni volta
che sia necessario: «Un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare a vedere
i nomi di tante persone, delle quale alcuni forse pensavano di essere
immortali, immuni e indispensabili!...L’antidoto a questa epidemia è la grazia
di sentirci peccatori e di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10)» (Discorso per gli
auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
II.b – La
tenerezza del pastore.
Nella già
ricordata meditazione quotidiana a Santa Marta, in occasione della Solennità
del Sacro Cuore (7 giugno 2013), a partire
da un brano del profeta Ezechiele (34,16) – “Andrò in cerca della pecora
perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò
quella malata, avrò cura della grassa e della forte, le pascerò con giustizia e
con tenerezza” – Papa Francesco ha parlato anche del secondo tratto dell’essere
pastore da parte di Dio: «Il Signore ci
ama con tenerezza. Il Signore sa quella bella scienza delle carezze. La
tenerezza di Dio: non ci ama a parole; lui si avvicina e nel suo starci vicini
ci dà il suo amore con tutta la tenerezza possibile».
La tenerezza,
per così dire, è lo stile, la modalità, con cui Dio realizza la sua vicinanza e
che è richiesta anche ai pastori. Essi infatti sono costituiti per prendersi
amorevolmente cura del popolo di Dio, per provare, in senso etimologico,
“compassione”, per le sue vicende; «Questa
“compassione”», ha ricordato Papa Francesco all’Angelus del 9 giugno 2013 «è
l’amore di Dio per l’uomo, è la misericordia, cioè l’atteggiamento di Dio a
contatto con la miseria umana, con la nostra indigenza, la nostra sofferenza,
la nostra angoscia».
Esattamente
come Dio fa sempre e come Gesù ha fatto durante la sua vita terrena, i
presbiteri-pastori sono chiamati a farsi teneramente prossimi agli uomini,
soprattutto alle loro miserie, alle loro sconfitte e alla loro disperazione.
Anche dove il male sembra trionfare, il pastore, libero da calcoli umani e da
opportunismo, si fa prossimo per portare una parola di speranza o un aiuto
materiale, o, altre volte, semplicemente per far sentire con la sua sola
presenza che Dio non abbandona nessuno e non si allontana da nessuno, perché
Egli «ha un cuore misericordioso! E se
gli mostriamo le nostre ferite interiori, i nostri peccati, Egli sempre ci
perdona», come ha ribadito con forza il Santo Padre nel corso del medesimo Angelus (9 giugno 2013).
Questa
compassione è qualcosa di profondo, che coinvolge e crea turbamento, come è
accaduto anche a Gesù di fronte alla tomba dell’amico Lazzaro, perché «certe realtà della vita si vedono soltanto
con gli occhi puliti dalle lacrime… » e, di fronte ad esse, «la nostra risposta è il silenzio o la parola
che nasce dalle lacrime», come ha ricordato ai giovani delle Filippine Papa
Francesco, profondamente commosso per le vicende dolorose che gli venivano
esposte. L’esempio del Papa ci incoraggia, il suo cuore di pastore aperto alla
tenerezza per chi soffre ci è d’esempio; possiamo perciò sentire rivolte anche
a ciascuno di noi le sue parole: «siate
coraggiosi, non abbiate paura di piangere!» (Sri Lanka, Incontro con i
Giovani, 18 gennaio 2015).
Il
presbitero-pastore è capace di commuoversi, di partecipare interiormente della
vita dei suoi fedeli, non limitandosi a porsi come “benefattore”, che realizza
un’opera buona in maniera asettica, impersonale. Quando un sacerdote si
immedesima con quel che il suo prossimo vive in quel momento, gli diventa
possibile servirlo nella maniera più efficace, annunciandogli il volto di
Cristo di cui ha più bisogno in una relazione veramente umana. “Compatire”
significa avere a cuore la vita e il destino dell’altro, cercando di far
arrivare nella sua, l’amore di Dio per lui, anche prima di annunciargli
esplicitamente il Vangelo.
A ben
pensarci, infatti, lo stesso gesto può avere per chi lo compie e per chi lo
riceve una valenza ben diversa, in base al cuore di colui che lo compie.
Pensiamo all’elemosina: posso dare una moneta in maniera frettolosa, per
liberarmi quanto prima dalla persona importuna che me la chiede; oppure posso
darla a testa bassa, per mettermi in pace la coscienza e non pensare più alle
situazioni di miseria, tanto “ho già dato”; oppure posso accompagnare
l’elemosina almeno con un sorriso, uno sguardo, con un tocco di umanità che
raggiunga non solo la mano tesa del povero, ma anche il suo cuore. Pertanto,
secondo le parole di Papa Francesco (Angelus,
15 febbraio 2015), «Per essere “imitatori
di Cristo” (cfr 1 Cor 11,1) di
fronte a un povero o a un malato, non dobbiamo avere paura di guardarlo negli
occhi e di avvicinarci con tenerezza e compassione, e di toccarlo e di
abbracciarlo».
La tenerezza “produce
anticorpi”, è “terapeutica” non solo per chi la riceve, ma anche per chi la dà,
perché senza di essa «c’è anche la
malattia dell’“impietrimento” mentale e spirituale: ossia di coloro che
posseggono un cuore di pietra e la “testa dura” (cfr At 7,51); di coloro che,
strada facendo, perdono la serenità interiore, la vivacità e l’audacia e si
nascondono sotto le carte diventando “macchine di pratiche” e non “uomini di
Dio” (cfr Eb 3,12). È pericoloso perdere la sensibilità umana necessaria per
piangere con coloro che piangono e gioire con coloro che gioiscono! È la
malattia di coloro che perdono “i sentimenti di Gesù” (cfr Fil 2,5) perché il
loro cuore, con il passare del tempo, si indurisce e diventa incapace di amare
incondizionatamente il Padre e il prossimo (cfr Mt 22,34-40)» (Discorso per
gli auguri natalizi alla Curia Romana, 22 dicembre 2014).
III – Profeta.
La terza
dimensione caratterizzante della spiritualità presbiterale secondo Papa
Francesco, a mio modo di vedere, può essere considerata quella “profetica”.
Il profeta
infatti è colui che può parlare a nome di Dio, “leggere” le vicende della
storia con gli occhi di Dio e aiutare gli uomini a farlo. Tale capacità non
deriva al profeta da doni soprannaturali, ma dalla sua intimità con Dio, dal
suo essere entrato pienamente nella logica di Dio e nella vita secondo lo
Spirito.
Per questo,
per il presbitero, l’essere profeta è il naturale esito di un permanente
cammino discepolare, di una ininterrotta sequela del Signore, nonché del suo
essere un pastore secondo il cuore del Signore. Il presbitero-profeta allora,
semplicemente, continuatore della missione di Cristo, parla di Chi conosce,
cioè di Dio, nonché del suo agire nel mondo.
Un simile
parlare è indubbiamente gradito a chi parla “la stessa lingua”, per coloro che
sono discepoli del Signore o che comunque intuiscono la bellezza della vita
secondo il Vangelo; ma per coloro che rifiutano l’annuncio – per calcolo, per
pigrizia, perché soggiogati dalle logiche del mondo – il presbitero-profeta è
fastidioso, molesto e si cerca di liberarsene, tanto che, ha ricordato Papa
Francesco «sempre nella storia della
salvezza, nel tempo di Israele e anche nella Chiesa, i profeti sono stati
perseguitati» (Meditazione a S.Marta, 4 aprile 2014).
Il presbitero
ha necessità di restare intimamente unito a Cristo, per essere un pastore
secondo il suo cuore e un profeta, che parla in suo nome. Niente di eccezionale
o di eroico, non è un compito destinato a “super preti” o a quelli che non
hanno niente da fare quindi possono dedicarsi alla propria cura spirituale.
Errore. La santificazione di un presbitero, il suo poter parlare legittimamente
a nome di Dio, si compie attraverso la cura di quello che ho ricordato in precedenza,
cioè la cura della dimensione discepolare e del cuore pastorale.
La via
attraverso cui un presbitero realizza la sua missione profetica, nella Chiesa e
per la Chiesa, risiede proprio nel suo continuare a essere e ad agire discepolo
e pastore, libero dalla tentazione di diventare un “chierico di Stato”, un
“funzionario”, preoccupato di non perdere il consenso delle persone importanti,
piuttosto che di annunciare al mondo le parole del Vangelo; «il profeta è un uomo che dice: “ma voi avete
sbagliato strada, tornate alla strada di Dio!” Questo è il messaggio di un
profeta. Un messaggio che non fa piacere alle persone che traggono il loro
potere da quella strada sbagliata», ha ammonito papa Francesco (Meditazione
a S.Marta, 4 aprile 2014).
Occorre, insomma,
che i presbiteri siano «uomini che non si
dimentichino di essere stati “tratti dal gregge”, che non si dimentichino
“della propria madre e della propria nonna” (2 Tim 1:5); presbiteri che si
difendano dalla ruggine della “mondanità spirituale”, che costituisce “il più
grande pericolo, la tentazione più perfida, quella che rinasce sempre -
insidiosamente - quando tutte le altre sono state già sconfitte, e riprende
nuovo vigore con le stesse vittorie...”», come scrisse nel 2008 il
Cardinale Bergoglio ai sacerdoti di Buenos Aires (meditazione che il Santo
Padre ha pregato di trasmettere ai sacerdoti di Roma, in vista dell’incontro
con loro, il 16 settembre 2013).
IV – Conclusione
Ho cercato sin
qui di sintetizzare la visione della spiritualità presbiterale secondo Papa
Francesco, cogliendo alcuni dei numerosi spunti che egli continuamente propone,
con la sua predicazione, i suoi discorsi e, soprattutto, con il suo esempio
personale, che è il principale “testo” da consultare per chi vuole comprendere
la sua visione del ministero ordinato.
Tale
spiritualità presbiterale è una proposta “in positivo”, costruttiva, che mira a
liberare i presbiteri dal rischio della corruzione e dell’imborghesimento,
perché il popolo di Dio abbia sempre pastori secondo il cuore di Gesù. Il Santo
Padre infatti continua a mostrare come i sacerdoti siano un dono che Dio fa
alla sua Chiesa e alla società in mezzo alla quale operano come pastori. Da qui
sorgono alcune esigenze, necessarie per far sì che questo dono non vada sprecato,
ma, curato con gioiosa perseveranza, possa portare appieno i suoi frutti.
In sintesi allora, è necessario che ogni un sacerdote continui a sentirsi discepolo in cammino per tutta la vita, a volte bisognoso di riscoprire e rafforzare il suo rapporto col Signore, e, anche, di lasciarsi “guarire”; non a caso Papa Francesco nel suo discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero (3 ottobre 2014), ha ricordato che nel cammino di discepoli «a volte procediamo spediti, altre volte il nostro passo è incerto, ci fermiamo e possiamo anche cadere, ma sempre restando in cammino».
Nel rapporto
con il Signore, il discepolo, chiamato a essere pastore e inviato a
evangelizzare con spirito profetico, viene preservato dal diventare un
“funzionario” del sacro, un “mestierante” della pastorale, magari preparato
nella gestione di eventi e iniziative, ma spiritualmente impoverito, distante
dalla gente e non più capace di contagiare con la gioia del Vangelo.
Obbediente a
Dio attraverso la Chiesa, esigente innanzitutto con sé stesso, per custodire la
vocazione e il ministero, strumento della tenera vicinanza di Dio agli uomini, consapevole
di essere sempre allo stesso tempo pastore e discepolo: così preghiamo che
possa vivere il suo ministero ogni sacerdote oggi, in particolar modo quelli
che servono questa Chiesa fiorentina, gioiosi anche nelle avversità, consci di
essere un dono dell’amore di Dio, fatto alla Chiesa e alla società intera.
“La spiritualità presbiterale secondo Papa Francesco”
Introduzione – Il presbitero discepolo, pastore e profeta
II.a – La vicinanza del pastore.
II.b – La tenerezza del pastore.